domenica 20 gennaio 2013

COME RICONOSCERE I SINTOMI DI UN ICTUS CEREBRALE

COME RICONOSCERE I SINTOMI DI UN ICTUS CEREBRALE 

In uno dei precedenti articoli ho parlato dello Stroke (più comunemente conosciuto con il nome di Ictus) e delle possibili conseguenze neuropsicologiche che ne possono derivare.
Per Stroke si intende una lesione cerebrovascolare causata dall’interruzione del flusso sanguigno al cervello dovuta a ostruzione o rottura di un’arteria.

L’Ictus può essere di tipo emorragico o di tipo ischemico.
L’ictus ischemico ha origine quando, all’interno di un’arteria cerebrale si forma un coagulo di sangue (il trombo) che restringe il vaso sanguigno. Questo processo può interrompere totalmente la fornitura nutritiva nell’area cerebrale irrorata dall’arteria che si è ostruita.
L’ictus emorragico, invece, è la tipologia di Stroke che si verifica meno spesso, ma è la più grave e potenzialmente fatale perché si genera quando un’arteria cerebrale si rompe. Infatti questo tipo di Ictus si ha quando un vaso intracranico si rompe e il sangue si espande nell’encefalo uccidendo i neuroni (il sangue infatti è neurotossico).


Bisogna sapere che la maggior parte delle persone che subiscono un ictus non muore immediatamente. Le prime 3 ore successive all’attacco sono cruciali e se si riesce ad intervenire entro tale tempistica si può porre rimedio all’episodio.
La cosa fondamentale è essere in grado di riconoscere lo Stroke per tempo!
Riconoscere se in una persona è in corso un ictus cerebrale non è  facile, ma nemmeno impossibile!
Imparare a riconoscere i sintomi di un ictus è fondamentale per intervenire precocemente limitando le conseguenze che da esso possono derivare, tra cui coma e morte. 

L’ictus si riconosce da una debolezza improvvisa, da una paralisi o da un disturbo della
sensibilità che colpiscono per lo più un solo lato del corpo (viso, braccio o gamba). Un
sintomo tipico è anche la perdita improvvisa della parola, la difficoltà a pronunciare parole o la difficoltà a comprendere ciò che viene detto. Altri sintomi possono essere cecità (spesso da un solo occhio), sdoppiamento delle immagini, vertigini violente con incapacità di deambulazione, forte mal di testa.
In sintesi, i sintomi tipici dell'ictus sono:
-insorgenza improvvisa di vertigini, con perdita di equilibrio e coordinazione dei movimenti; -difficoltà di esprimersi con la parola o di comprensione;
-paralisi o intorpidimento, debolezza, formicolii o paralisi di un lato del corpo;
-disturbi della visione, cecità da un occhio, visione offuscata o visione doppia;
-violento mal di testa.

Per riuscire a capire se la persona ha o meno in corso un episodio di Stroke, tutti possono mettere in atto le indicazioni del TEST FAST.
Ecco come funziona il test Fast per riconoscere i sintomi di un ictus cerebrale:

  • F come Face = Viso
Chiedete alla persona di sorridere o di mostrare i denti.
Se la bocca è storta, gli angoli della bocca pendono verso il basso o un lato non si muove bene come l’altro (non normale)
  • A come Arm = Braccio
Chiedete alla persona di tendere entrambe le braccia in avanti orizzontalmente, sollevarle e rivolgere i pollici verso l’alto.
Se non riesce, se un arto non si muove o uno cade (non normale).


  • S come Speech = Linguaggio
Chiedete alla persona di pronunciare una frase semplice, ma di senso compiuto
Se strascica le parole o usa parole inappropriate o è incapace di parlare (non normale).


  • T come Time = Tempo
Se è presente uno o più sintomi Face/Arm/Speech chiamare immediatamente il pronto intervento, anche nel caso in cui i disturbi si attenuassero in breve tempo!
Le  perdite di tempo che precedono le cure mediche susseguenti ad un ictus equivalgono alla morte di cellule cerebrali.

Nel post-Ictus risulta molto importante effettuare una valutazione neuropsicologia per:
-ottenere un adeguato inquadramento delle funzioni cognitive così da identificare la presenza di sindromi o deficit focali (sindrome frontale, afasia, neglect, disturbi di memoria, disturbi di attenzione, etc);
-individuare fattori determinanti un rischio di evoluzione verso un deterioramento cognitivo su base vascolare;
-impostare, se necessario, specifici programmi di riabilitazione neuropsicologica (l’ictus danneggia il cervello e le sue funzioni, non i muscoli) e di supporto psicologico.










lunedì 29 ottobre 2012

ALCUNI CONSIGLI PER MANTENERE IN FORMA IL NOSTRO CERVELLO


ALCUNI CONSIGLI PER MANTENERE IN FORMA IL NOSTRO CERVELLO


Esistono metodi per mantenere in forma il nostro cervello? Assolutamente si! Ci sono alcune semplici accortezze che possiamo mettere in atto per fare in modo che il nostro cervello si mantenga in forma!

Di seguito vi elenco alcuni facili accorgimenti che possono risultare utili per aiutare a migliorare le nostre potenzialità cerebrali.

Fai attività fisica:  fare sport non allena solo il fisico, ma allena anche il nostro cervello. Una ricerca svedese apparsa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che svolgere attività fisica costante renderebbe più intelligenti e brillanti. Gli scienziati hanno spiegato che esiste una correlazione tra allenamento cardiovascolare e migliori capacità intellettive. Attraverso l’esercizio fisico, infatti, il cervello viene irrorato con un maggiore flusso sanguigno e un maggiore apporto di ossigeno. L’attività fisica attiva e migliora circuiti neuronali implicati in svariati campi, ad esempio aumenta le capacità di concentrazione, di memorizzazione e l’abilità di compiere più attività contemporaneamente.

Fai attenzione a ciò che mangi: il cervello necessita non solo di carburante, ma della combinazione corretta di nutrienti per funzionare al meglio. Filippo Ongaro, considerato uno dei pionieri europei della medicina funzionale e anti-aging, ha scritto un libro chiaro ed efficace sulla nutrigenomica:  “Mangia che ti passa. Uno sguardo rivoluzionario sul cibo per vivere più sani e più a lungo” (Piemme).
"Il cibo è come un farmaco per il nostro organo del pensiero". A sostenerlo è Fernando Gomez-Pinilla, un professore di neurochirurgia della UCLA, la più grande università della California a Los Angeles. E' pubblicato su Nature Reviews Neuroscience lo studio più completo su come la dieta sia in grado di influenzare le capacità cognitive e la memoria.
In prima linea troviamo gli omega 3, acidi grassi di cui sono ricchi pesci, kiwi e noci. Sono uno dei mattoni principali delle membrane che circondano i neuroni.
Altre sostanze utili per rafforzare memoria e concentrazione sono i flavonoidi del vino rosso, cioccolato fondente e tè verde e le vitamine C ed E (agrumi, noccioline e oli vegetali).
L'acido folico di spinaci, lievito e succo d'arancia aiuta a stabilizzare l'umore, mantenendo a distanza alcuni tipi di depressione e rallenta il declino cognitivo negli anziani.

Chiacchiera: socializzare è un’ottima forma di ginnastica per il cervello. Uno studio, pubblicato da Nature Neuroscience, indicherebbe che relazionarsi con più persone promuoverebbe lo sviluppo di aree cerebrali deputate a particolari funzioni nei meccanismi di relazione con il prossimo. Nel nostro cervello, queste funzioni vengono svolte dall’amigdala e da parti della corteccia cerebrale che si connettono ad essa. Per confermare questa ipotesi, Kevin Bickart e colleghi hanno osservato le dimensioni dell’amigdala e lo spessore delle aree della corteccia connesse ad essa di 58 soggetti sani attraverso la risonanza magnetica per immagini. I soggetti con un’ampia e complessa rete di conoscenze si sono rivelati avere anche un’amigdala più sviluppata per dimensioni e connessioni con le aree deputate alla socializzazione. Attenzione però, le discussioni che si svolgono attraverso i social network non determinano il medesimo effetto: il cervello non “cresce” con relazioni basate sulle chat. 

Gioca con la tua memoria:  Gary Small, dell'università Ucla di Los Angeles (Usa) autore di "La Bibbia della memoria" ha individuato alcuni esercizi molto efficaci per migliorare le prestazioni del cervello. Anche il cervello può essere tonificato con esercizi mirati. Eccone alcuni esempi:
- al supermercato calcolate a mente quanto state spendendo e poi, giunti alla cassa, confrontate il vostro calcolo con lo scontrino;
- osservate per un minuto un elenco di 10 parole; dedicatevi per 20 minuti ad altro e poi cercate di riscrivere le 10 parole che avete memorizzato;
- cercare di ricordare a memoria la lista della spesa, ricordandola ad intervalli di 10 minuti.

Video-gioca:  Se da un lato l’uso esagerato dei videogiochi può creare diversi problemi di salute, a partire da un calo della vista fino ad arrivare a complicazioni di tipo psicologico e sociale, dall’altro è anche vero che, nelle giuste dosi, rappresenta una sorta di sport mentale, utile a migliorare certe capacità logiche e decisionali. I videogames fanno bene al cervello, lo rendono più elastico nei riflessi, nella capacità reattiva, nell’elaborazione delle situazioni, nell’ampiezza del campo visivo. Spesso i media si soffermano sugli effetti negativi dei videogiochi, ma molti sono anche i benefici.  Daphne Bavelier, neurobiologa,  ha svolto uno studio grazie al quale ha potuto evidenziare che i giochi d’azione  migliorano, tra le altre cose, alcuni aspetti della visualizzazione e la concentrazione. Uno studio pubblicato nel 2010 dall’Università di Rochester ha dimostrato come i videogiochi migliorino le capacità decisionali, permettendo di risolvere problemi in modo rapido ed accurato. 






martedì 23 ottobre 2012

NIENT'ALTRO CHE STAGE...

NIENT'ALTRO CHE STAGE...

Buon giorno a tutti. Oggi vorrei parlare di tirocini, o meglio vorrei dare la mia personale opinione in merito all’attuale situazione lavorativa dei giovani.

Chi, come me, ha seguito un percorso di studi per ottenere l’abilitazione alla professione di psicologo, conosce benissimo l’iter che viene richiesto. Questo iter, come capita anche per moltissimi altri settori, comporta dei periodi (anche lunghi) di tirocinio. 

Ora, io sono dell’idea che sia molto utile, importante e formativo poter svolgere dei tirocini validi (e anche qui ci sarebbe da aprire un dibattito sulla qualità dei tirocini che spesso vengono proposti, ma questo è un altro discorso!). Gli stage durante il percorso di studi, se veramente valevoli, permettono di acquisire una pratica e una concretezza operativa che l’università non fornisce. Perciò, in questi termini, io sono pienamente d’accordo con l’obbligo di svolgere periodi di stage!

Precisato questo e ribadita l’importanza di svolgere stage validi e utili, a me sembra sia veramente eccessivo, inappropriato e sconveniente imporre ai giovani una condizione pressoché costante di “eterno tirocinante”. La nostra parte l’abbiamo fatta, insomma…quelle moltissime ore di lavoro (perché durante lo stage si lavora a tutti gli effetti) senza avere una minima retribuzione e senza neanche un modico rimborso spese, le abbiamo portate a termine. Tutti coloro che, durante il percorso di studi, sono stati obbligati a fare dei periodi di tirocinio, sanno perfettamente di cosa parlo.

Una volta terminato il percorso di studi, una volta acquisita la laurea e l’eventuale abilitazione, i giovani hanno tutto il diritto di poter trovare un lavoro che possa ripagarli dei sacrifici fatti per ottenere il famoso “pezzo di carta”! E per lavoro intendo una reale occupazione che possa essere associata a ciò che si è studiato per tanti anni e che ovviamente preveda tutta una serie di diritti.
Invece, quando si va alla ricerca di un posto che possa essere coerente col piano di studi svolto e che possa fornire anche una sicurezza economica seppur modesta, ci si ritrova di fronte a miliardi di offerte “di lavoro” che impongono altri periodi di tirocinio, altre ore di stage (magari lontane dal proprio domicilio) le quali ovviamente implicano spese a proprio carico e non garantiscono né rientri economici di alcun genere né tanto meno la possibilità di ottenere un posto di lavoro successivo.

Magari si ha l’occasione di sostenere dei colloqui, ma anche in questo caso, molto di frequente vengono proposti esclusivamente “iniziali” periodi di stage ai quali, spesso, viene associata anche la necessità di frequentare corsi di formazione specifici (ovviamente che ognuno si deve pagare!). Oppure capita che per ottenere la sola possibilità di un’eventuale (non certa) assunzione si debbano prima seguire corsi formativi specifici (sempre da pagare di tasca propria ovviamente) proposti dalla struttura alla quale si è inviato il proprio CV, in seguito ai quali (quasi certamente) seguiranno periodi di stage. Inoltre, può anche capitare che non venga chiesto di svolgere alcun iniziale periodo di stage, non venga richiesto di frequentare alcun corso di formazione, ma vengono offerte retribuzioni che non permetterebbero neanche di coprire le spese necessarie per recarsi sul poso di lavoro ogni giorno!
Quindi non capita praticamente mai di ottenere una possibilità di assunzione, mai una vera occasione di lavoro reale.
A me tutto questo dà l’idea di un circolo vizioso indecente, che sminuisce notevolmente l’autostima, svilisce la determinazione delle persone e, ancor peggio, non mette nessuno nella condizione di poter guardare al futuro con un briciolo di serenità!

Oppure, allontaniamoci dal mondo universitario e proviamo a considerare le persone che decidono di non intraprendere una carriera universitaria, ma scelgono di cercare subito un lavoro.
Bene, qualche giorno fa mi è capitato di leggere l’articolo di una ragazza che parlava della situazione attuale dei giovani italiani.
L’immagine che ho inserito, e che vedete qui sotto, faceva parte di quell’articolo e credo sia esemplificativa di una (purtroppo) reale condizione dalla quale sembra quasi impossibile riuscire ad uscire e che pone i giovani in una situazione di scandalosa costante disoccupazione.

L’immagine, come potete vedere, fa riferimento alla ricerca di una stagista per una tabaccheria!!!!Uno stage per fare la tabaccaia!!!! Ma ci rendiamo conto???? Adesso, senza nulla togliere ai tabaccai (ci mancherebbe altro), a mio parere questo è davvero il chiaro esempio della vergognosa condizione alla quale siamo arrivati!

Stage per fare qualsiasi cosa! Nient’altro che stage! Ma davvero qualcuno pensa realmente che i giovani, il futuro di un paese, possano costruirsi una vita degna solamente avendo a disposizione stage non retribuiti e privi di alcuna certezza????
È tutto un tirocinio. Tutto un volontariato. Io ammiro molto chi fa volontariato, ma obiettivamente a 30 anni si può vivere di solo volontariato? Si può pensare e provare a progettare un futuro con la sola certezza di uno stage non retribuito?!!! Il volontariato, a mio parere, dovrebbe essere un “qualcosa in più”, un’attività che si decide di svolgere quando si ha già una sicurezza lavorativa che permetta di mantenersi e non un’occupazione “obbligata” perché non ci sono altre alternative!
E chi dovrebbe e potrebbe cambiare la situazione ha il coraggio di definire “schizzinosi” i giovani d’oggi!!!! Le richieste dei giovani non sono pretese!!! Qui non si tratta di pretese, ma di dare reale concretezza al diritto di ognuno di avere un lavoro dignitoso e retribuzioni al di sopra dello sfruttamento! Qui si parla di fornire ai giovani la possibilità di costruirsi un futuro, una vita decorosa e di non dover rinunciare alle proprie ambizioni e ai propri sogni!
Io sono veramente indignata e allibita! Direi che, arrivati a questo punto, sia decisamente il momento di creare nuove regole e di ridare (finalmente) ad ognuno la possibilità di lavorare e vivere dignitosamente, perchè si prosegue su questa strada io non oso davvero immaginare dove potremmo andare a finire!...







venerdì 19 ottobre 2012

IN CAMMINO VERSO IL CAMBIAMENTO!

IN CAMMINO VERSO IL CAMBIAMENTO!

Quanti di voi, all'inizio di ogni anno, si ripromettono di cambiare qualcosa della propria vita e poi, nel corso dell'anno, tutti i buoni propositi vengono abbandonati?...E' capitato sicuramente a moltissimi, me compresa!
Sia che ci si riproponga di fare attività fisica costante, di dimagrire, di smettere di fumare o semplicemente di tenere la macchina sempre pulita e la scrivania ordinata, sembra proprio che la maggioranza delle persone tendano a rinunciare prima del traguardo! C'è chi dura di più e chi dura meno, ma solo pochi riescono a raggiungere davvero il proprio obiettivo!

Chiunque cerchi, o abbia cercato, di modificare un'abitudine consolidata e radicata nel tempo conosce molto bene la difficoltà e la frustrazione che si prova quando si tenta di concretizzare cambiamenti che possano essere duraturi!

I cambiamenti pratici relativi al proprio stile di vita comportano sempre anche delle modificazioni a livello mentale. Senza dimenticare l'importanza della motivazione e dell'intenzione!
Perciò, sembra inutile pensare a cambiamenti grandiosi. Piuttosto, per prepararci nel modo più opportuno alle sfide che ci aspettano e che decidiamo di porci, sembra molto più utile avere delle aspettative realistiche che ci permettono poi di organizzare specifici piani d'azione.
Proprio in considerazione del fatto che i cambiamenti pratici comportano aggiustamenti mentali, è utile porsi traguardi a breve termine, definendo obiettivi alla nostra portata. Questo permetterà di aumentare la fiducia in noi stessi. 
Inoltre è fondamentale avere una profonda motivazione personale che ci faccia sentire realizzati e soprattutto ci permetta di percepire la nostra capacità di controllare le situazioni e di gestire le difficoltà. 
Infine è importante creare nuove routine, in modo tale che i nuovi comportamenti (desiderati) diventino tanto automatici quanto lo erano le cattive abitudini che ci prefiggiamo di eliminare.
Perciò i primi grandi aspetti che ci possono aiutare a rendere concreto e duraturo un cambiamento sono: porsi obiettivi realistici e realizzabili nel breve periodo, essere motivati e creare nuove abitudini. 

E' fondamentale entrare nell'ottica che cambiare le nostre abitudini sarà tutt'altro che facile!!!
A volte è sufficiente trovarsi in un certo posto o in una specifica situazione per attivare un determinato comportamento. Perciò, un metodo che potrebbe risultare utile e che potrebbe aiutarci, è quello di immaginare in anticipo come minimizzare le varie situazioni "di rischio"
Cambiare le nostre abitudini per crearne di nuove, in genere, comporta lo scegliere tra qualcosa che ci piace e qualcosa che ci piace molto meno. E questo non è per niente facile. Quindi non si deve mai dimenticare la difficoltà intrinseca al cambiamento! Riuscire a ottenere modificazioni durature è molto complesso, ma già il riconoscere e l'accettare questa complessità ci aiuta nel nostro cammino verso il cambiamento. 

Un'altra azione che ci potrebbe aiutare nel raggiungimento del traguardo è quella di passare del tempo  immaginando come sarà il risultato dei nostri sforzi e quali saranno gli ostacoli specifici che potremmo trovarci ad affrontare lungo la strada. Serve un grande sforzo per generare nuove abitudini e sono necessari piani d'azione specifici. E' importante non considerare i primi insuccessi come dei fallimenti. Gli "scivoloni" sono normali e non indicano assolutamente che dobbiamo arrenderci o che non siamo in grado di proseguire. 

Per rendere ancora maggiori le possibilità di successo e di raggiungere il nostro obiettivo è necessario capire esattamente il perchè ci siamo imposti quell'obiettivo e il perchè lo stiamo perseguendo. Risulta perciò fondamentale trovare delle ragioni personali profonde e valide per proseguire nel nostro cammino di auto-cambiamento! Gli obiettivi che fissiamo devono essere, e  li dobbiamo perciò sentire, realmente nostri!

Un'altra chiave per aiutarci a rendere reali i nostri obiettivi è partire con modestia, arrivando al risultato finale con gradualità. Questo può sembrare un consiglio banale, ma in realtà spesso le persone fanno l'opposto, cioè si pongono obiettivi e preparano piani d'azione estremi. L'approccio graduale, invece, è molto importante e utile per porsi nella condizione di sentire di essere capaci di fare qualcosa a dispetto delle difficoltà e questo, come si può intuire, aumenta la fiducia in noi stessi. Camminando lentamente verso il nostro obiettivo, si riduce lo sforzo necessario per il suo raggiungimento e aumenta, al contempo, l'autostima.

In sintesi, "quali tecniche mi possono aiutare nel cammino verso il traguardo?"

1) CAMMINATE PIANO E SIATE REALISTICI
Ponetevi obiettivi alla vostra portata e a raggiungibili nel breve periodo.
Immaginate il vostro traguardo, insieme ai possibili ostacoli che potrete incontrare per raggiungerlo.
Perdonatevi qualche scivolone, ma non smettete di camminare.

2) TROVATE UNA VOSTRA MOTIVAZIONE
Immaginate come il raggiungimento dell'obiettivo potrà cambiare positivamente la vostra persona.
Misurate i vostri progressi.

3) DEFINITE SPECIFICI PIANI D'AZIONE
Immaginatevi nelle situazioni "di rischio" e cercate di trovare delle vostre modalità, utili ed efficaci, per fronteggiarle.



Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa Clinica - formata in Neuropsicologia
334.1604200
salvettielena@libero.it
salvettielena84@gmail.com



domenica 14 ottobre 2012

CONSIGLI PER RENDERE EFFICACE LA COMUNICAZIONE COL MALATO DI ALZHEIMER

CONSIGLI PER RENDERE EFFICACE LA COMUNICAZIONE COL MALATO DI ALZHEIMER

Come anticipato nell’articolo precedente, oggi vorrei fornirvi alcune indicazioni utili per garantire l’instaurarsi di un contatto comunicativo ideale, funzionale ed efficace con la persona affetta da malattia di Alzheimer.
Perciò, di seguito elencherò alcune semplici “regole” generali da tenere in considerazione.

1)      Solitamente, il malato ha un campo visivo (attentivo) molto ristretto con difficoltà a guidare gli
occhi sulla mira e a mantenervela. Quindi é necessario:
-scegliere sempre come luogo di comunicazione un ambiente ben illuminato (mai penombra);
-segnalare il vostro arrivo attraverso un altro canale sensoriale ( dicendo il vostro nome, parlando, facendo rumore, toccando le mani ecc.);
-muoversi adagio e al tempo stesso non troppo;
-mettersi di fronte al malato, preferibilmente all’altezza dei suoi occhi (per favorire il più possibile il contatto visivo) e a una distanza che favorisca anche la lettura delle labbra e l’identificazione della mimica facciale.
Tutto ciò contribuirà a creare un senso di intimità tra il malato e l’interlocutore.

2)      Comunemente, l’ammalato presenta un’ipersensibilità acustica associata ad una difettosa capacità
di identificare la sorgente dei suoni e di riconoscerli in seguito alla quale sopporta difficilmente rumori di sottofondo, sia quelli continui (radio, T.V., conversazioni di altre persone, ecc.) che improvvisi (specie elettronici quali il campanello, il telefono).
E’ necessario quindi scegliere un ambiente tranquillo, privo di rumori concomitanti allo scopo di evitare confusione, ansia o irritazione da parte del malato facilitando così la sua concentrazione.

3)      Di regola, il malato ha, fin dall’inizio, grosse difficoltà nello svolgere due attività in contemporanea,
anche quelle più semplici e automatizzate, per problemi di distribuzione di risorse attentive.
Quindi é molto importante che il malato possa dedicarsi esclusivamente all’atto di comunicare senza avere da svolgere altri compiti, compresi quelli di routine (quali mangiare, lavarsi o vestirsi) sufficienti ad inficiare il regolare svolgimento di una conversazione. Ciò vale anche per l’interlocutore, se svolge altre attività mentre parla con il malato o l’ascolta finirà sicuramente per distrarlo e togliergli la concentrazione.

4)     Di frequente, il malato sente il forte bisogno di stare in silenzio rifiutando di entrare in contatto con
chiunque. Bisogna rispettare quei momenti per non rischiare che egli viva il contatto in modo stressante e spiacevole, il che allungherà i tempi per riuscire a riallacciare un buon contatto.
Anche l’inverso é vero: un interlocutore che é arrabbiato o impaziente non dovrebbe iniziare alcuna forma di interazione con il malato, quindi é preferibile allontanarsi e ritornare vicino a lui quando sono ritornati il buon umore e la pazienza.

5)  E’ assolutamente sconsigliato parlare del malato con altre persone in sua presenza convinti che  questo non capisca. Difatti, esiste sempre la probabilità che egli possa cogliere dal tono della voce o dalla mimica l’idea principale o qualche determinata parola del discorso di altri, che potrebbe ferirlo e ne sentirebbe sicuramente l’umiliazione.

6)   Infine, si raccomanda di "comunicare con il cuore". Questa espressione ha in realtà più significati.
Il primo riguarda l’EMPATIA,  cioé l’interlocutore dovrebbe sempre cercare di immedesimarsi nel vissuto del malato al fine di creare contatti emotivi significativi e capire meglio comportamenti, sentimenti ed emozioni del malato.
Un secondo significato si riferisce al RUOLO DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE. L’espressione del viso (anche se il malato non riconosce il volto, ne coglie sempre il sorriso), lo sguardo, l’intonazione della voce (mai troppo alta), il linguaggio corporeo (il modo di muoversi e di comportarsi), il contatto fisico (prendergli la mano, appoggiare mano o braccia sulle sue spalle o stringerlo tra le braccia, se ovviamente é consenziente) contribuiscono a trasmettere all’ammalato lo stato d’animo e i sentimenti dell’interlocutore più che le parole stesse poiché il malato, man mano che perde la capacità di decodificare le parole, si aggrappa sempre di più al linguaggio gestuale. Per questo motivo, l’interlocutore deve essere consapevole del proprio linguaggio corporeo e apparire sempre coerente,  ossia le sue parole non devono mai essere in contrasto con il suo atteggiamento.
Il terzo significato sta a indicare l’assoluto bisogno di ELIMINARE IL PARAGONE tra la persona affetta da ALZHEMEIR e un BAMBINO. Il malato rimane sempre una persona adulta con un proprio passato. Pertanto indirizzarsi a lui come fosse un bambino lo può solo umiliare e scatenare reazioni aggressive o altri comportamenti disfunzionali.


Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa Clinica - formata in Neuropsicologia
334.1604200
salvettielena@libero.it
salvettielena84@gmail.com



venerdì 12 ottobre 2012

COME CAMBIA LA COMUNICAZIONE NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER


COME CAMBIA LA COMUNICAZIONE NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

"Tutti i malati di Alzheimer presentano prima o poi disturbi della comunicazione?" Sì, la Malattia di Alzheimer è associata così di frequente ai disturbi della comunicazione che oramai questi costituiscono uno dei criteri diagnostici (DSM-IV).

Il graduale peggioramento nell'abilità di farsi capire e/o di capire gli altri si rivela una delle conseguenze tra le più disastrose e disarmanti da affrontare, sia per il malato sia per i familiari.

Nella malattia di Alzheimer esiste una notevole variabilità individuale per quanto riguarda il momento della comparsa, la velocità di aggravamento e la tipologia dei disturbi comunicativi. Tuttavia è possibile delineare un certo "profilo" correlato alle tre grandi fasi evolutive della malattia: iniziale, intermedia e avanzata.

Nella FASE INIZIALE i problemi riguardano prevalentemente il contenuto del discorso, e più nello specifico la conversione del pensiero in linguaggio, così come la ricerca lessicale (la scelta delle parole). Il discorso di una persona affetta da Alzheimer in fase iniziale appare confuso. Quest’incoerenza nasce dalla difficoltà di tenere a mente quello che il soggetto intende comunicare mentre il suo pensiero lo elabora linguisticamente.
Di seguito, riporto alcuni esempi che descrivono le caratteristiche tipiche rilevabili nel linguaggio Alzheimer in fase iniziale:
«Spesso mia madre inizia un discorso e poi, senza motivo, non lo finisce» (false partenze).
«Frequentemente mancano dei pezzi importanti nei discorsi di mio padre che ci impediscono di capire cosa vuole dire esattamente» (omissioni).
«Mia moglie, ultimamente, non tiene il filo del suo discorso; salta continuamente di palo in frasca» (intrusioni).
«Ho notato che mio padre da qualche tempo, anche all’interno dello stesso discorso, ripete le medesime cose» (perseverazioni ideative)
Al tempo stesso, il discorso Alzheimer in fase iniziale presenta:
-Anomie:  difficoltà nel trovare le parole (effetto «punta della lingua»);
-Parafasie verbali: uso di una parola al posto di un'altra in base alla somiglianza fonetica (ad esempio "campagna" al posto di "campeggio"), alla somiglianza semantica (ad esempio "forchetta" anziché "cucchiaio") o ad entrambi (ad esempio "accappatoio" invece di "cappotto").
Il malato, essendo in questa fase consapevole dei suoi difetti, ricorre a delle strategie che in qualche modo gli permettono di compensare le sue difficoltà. Queste strategie sono generalmente rappresentate da:
-parole passe-partout: coso, roba, aggeggio...
-termini di incertezza: credo che, secondo me...
-giri di frasi a volte anche lunghe, creando la falsa impressione che la persona sia diventata più verbosa rispetto a prima.
Inoltre, emergono difficoltà nel seguire dialoghi veloci e complessi tra più persone, soprattutto se svolti in ambienti con rumori di sottofondo.

Nella FASE INTERMEDIA aumentano notevolmente le difficoltà linguistiche. Il malato inizia a manifestare una vistosa pigrizia verbale, ossia si esprime più lentamente e si ripete spesso sia nelle affermazioni sia nelle domande. Spontaneamente parla quasi esclusivamente di cose che avvengono nell’immediato. Questo si verifica perchè la persona non è più in grado di mettere in ordine cronologico gli eventi, di distinguere ciò che é già successo da quello che deve ancora accadere e di rappresentare il futuro. A poco a poco scompaiono i discorsi narrativi  per lasciare spazio a discorsi solamente descrittivi ed egocentrici. Si accentua l’anomia che non viene più compensata e sono frequenti le perseverazioni verbali, ad esempio: «Ho bevuto il latte e anche il latte» (al posto di "caffè").
Oltre ai disturbi di contenuto, si evidenziano anche alterazioni a livello della struttura del discorso, ad esempio frasi lasciate in sospeso. Il malato, in questa fase, commette anche delle parafasie fonemiche (a volte ancora riconoscibili: «gabilotto» per «gabinetto») fino a creare dei neologismi veri e propri («crango» per «cavatappi»). Il quadro complessivo corrisponde a quello che gli anglosassoni definiscono "Empty speech", cioè l’eloquio regge, ma è privo di contenuto. Anche il versante espressivo della comunicazione non verbale si deteriora: i gesti che accompagnano le parole non sempre sono congrui e l’espressione mimica diviene meno vivace. A questo stadio, il malato non è più in grado di seguire una semplice conversazione e non comprende più ordini semi-complessi («Prendi il latte nel frigorifero e versalo nella tazza») o complessi («Prima di venire a tavola, vai a lavarti le mani»). Solitamente NON esiste più piena consapevolezza delle proprie difficoltà comunicative.

Nella FASE AVANZATA le risorse linguistiche sono molte scarse. Il malato parla solo se stimolato, con risposte spesso stereotipate, inquinate da parole che il malato stesso ha pronunciato in precedenza o da parole dette da altri. Questo crea delle perseverazioni verbali:  «Giulia chiamo...eh...mi chiamo...chiamo Paolo...ecco…» per dire «Mi chiamo Giulia e mio marito Paolo». Oppure genera  eco-risposte in cui il malato "si appoggia" alle parole dell’interlocutore: «Come stai oggi?» «Come sto? Sto bene, grazie». Oppure si limita a ripetere la domanda fatta dall’interlocutore: «Come stai?» «Come stai?». O, ancora, ripete domande anziché dare risposte: «Hai fame?» «Ho fame?» Infine, a volte si presentano ripetizioni compulsive di parole che il malato sente nell’ambiente, anche se non sono indirizzate a lui.
Negli ultimi stadi dell’Alzheimer, le espressioni verbali possono essere ridotte a qualche stereotipia o qualche parola, o non-parola, isolata che il malato può ripetere instancabilmente. A volte la persona bisbiglia solo le ultime sillabe delle parole: «cie...cie...cie...cie...», oppure associazioni di suoni: «ghi...ga...ghi...ga...ghi». Infine può non emettere che gemiti o urli per poi arrivare a un mutismo totale.
La comprensione risulta gravemente compromessa. La comunicazione non verbale è notevolmente ridotta. E’ presente inerzia motoria. Il volto è completamente privo di espressione. Anche il contatto visivo con l’interlocutore risulta difficile.

Questa è, in linea di massima, la descrizione di come la comunicazione della persona affetta da malattia di Alzheimer si deteriora progressivamente. 

"Cosa devo fare se mi accorgo che un mio familiare presenta problemi di comunicazione simili a quelli descritti per la fase iniziale/intermedia?" E' importante capire l'origine delle problematiche comunicative. Non sempre le difficoltà linguistiche sono connesse a un esordio Alzheimeriano. Il consiglio è quello di  rivolgersi al proprio medico, al neurologo e al neuropsicologo che possono fornire chiarimenti e delineare un quadro completo e preciso della reale situazione.

Nel prossimo articolo fornirò alcune indicazioni utili al fine di garantire l’instaurarsi di un contatto comunicativo ideale con il malato di Alzheimer. Resto comunque a disposizione per rispondere ad eventuali  vostre domande e/o dubbi!


Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa clinica - formata in Neuropsicologia
334.1604200
salvettielena@libero.it
salvettielena84@gmail.com

venerdì 5 ottobre 2012

COS'E', A COSA SERVE E A CHI SI RIVOLGE LA VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA

COS'E', A COSA SERVE E A CHI SI RIVOLGE LA VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA
Buon giorno a tutti, oggi vorrei focalizzare l’attenzione sulla valutazione neuropsicologica, la quale, per altro, è una delle mie attività professionali principali.

Immagino che, per i non addetti ai lavori, parlare di valutazione neuropsicologica possa spaventare un po’, molti non ne hanno addirittura mai sentito parlare, altri ancora ne possono aver sentito parlare, ma non sanno molto bene di cosa si tratti né a cosa serva realmente. Perciò, in questo breve articolo, proverò a fornire alcune informazioni che potrebbero risultare utili per chiarire questi aspetti.

Prima di tutto è importante sapere che la valutazione neuropsicologica si inserisce nell’ambito della Neuropsicologia, un’affascinante disciplina che si propone di studiare gli effetti delle lesioni cerebrali sui processi cognitivi (percezione, attenzione, linguaggio, memoria, ragionamento logico, etc). Magari in un prossimo articolo cercherò di darvi qualche informazione più dettagliata in merito alla Neuropsicologia. Oggi però, come già precisato in precedenza, il focus sarà sulla valutazione. 

Quindi, cosa si intende per valutazione neuropsicologica? E a cosa serve? 
L’esame neuropsicologico fornisce importanti informazioni sul comportamento, sulle capacità cognitive, sulla personalità, sulle abilità apprese e sul potenziale riabilitativo delle persone che hanno subito una lesione cerebrale e non solo. Per ottenere queste informazioni si lavora mediante la somministrazione di tests aventi tutte le proprietà psicometriche su cui un test solitamente viene costruito (standardizzazione, attendibilità, validità, sensibilità, specificità). I test neuropsicologici stabiliscono se un certo tipo di funzionamento (memoria, attenzione, linguaggio, etc) rientra o meno nella “norma” per età e grado di istruzione.
È importante sottolineare un aspetto rilevante, ossia che un danno cerebrale comporta sempre un’alterazione comportamentale. La valutazione si prefigge di rilevare le manifestazioni comportamentali delle funzioni cerebrali, siano esse danneggiate oppure conservate. In altre parole, si può dire che la valutazione neuropsicologica permette di individuare quali sono le abilità compromesse, l’entità di tale compromissione e quali invece sono le capacità preservate.
Lo scopo ultimo non è quello di fare una diagnosi specifica, ma fornire dati ed evidenze che possono contribuire all’inquadramento diagnostico. 

L’impostazione della valutazione neuropsicologica dipende dalla finalità per cui la valutazione stessa viene effettuata: stesura di un profilo neuropsicologico, completamento della diagnosi neurologica, fornire indicazioni sulle abilità compromesse e su quelle residue, fornire indicazioni relative ad attività di gestione/assistenza del paziente, progettare e strutturare il progetto riabilitativo integrato, valutare l’efficacia di un determinato trattamento, fini assicurativi/legali o scopi di ricerca.

A chi è rivolta la valutazione neuropsicologica?
La valutazione è prevista per pazienti che presentano svariate patologie, tra cui: malattie psichiatriche (ad esempio Depressione), postumi di Ictus ischemico o emorragico, postumi di neurochirurgia, postumi di trauma cranico, demenze (ad esempio Alzheimer, demenza fronto-temporale…), malattia di Parkinson, etc. Tale valutazione può essere effettuata anche da tutti coloro che non hanno subito lesioni cerebrali e che non presentano patologie specifiche, ma che comunque vogliono tenere sotto controllo e monitorato il proprio funzionamento cognitivo, per interesse personale o perché hanno familiarità, o predisposizione, per patologie neurodegenerative. 

La valutazione si articola in diverse fasi:
-Definizione del problema: analisi dello scopo della richiesta, ossia individuazione del motivo per cui è stato richiesto l’intervento.
-Anamnesi: raccolta di tutte le informazioni sulla vita del paziente, sulla sua storia clinica, sugli esordi e il decorso del disturbo lamentato, sulla familiarità per patologie neurodegenerative e sulle visite ed esami strumentali già effettuati.  Si prevede inoltre un colloquio con i familiari per approfondire ulteriormente le informazioni raccolte e per completare in modo maggiormente dettagliato il quadro anamnestico.
-Fase di screening: durante la quale si utilizzano tests di valutazione delle funzioni cognitive generali. In questo modo si otterrà un profilo cognitivo globale del soggetto.
-Fase di approfondimento: strettamente connessa alla fase di screening, nel corso della quale si utilizzano tests per specifiche abilità cognitive.
-Restituzione: viene fornita una relazione dettagliata sulle informazioni raccolte e sugli esiti dei tests somministrati.

Quindi, in sintesi, la valutazione neuropsicologia è un processo diagnostico non invasivo, effettuato mediante la somministrazione di tests neuropsicologici, volto alla delucidazione e misurazione del funzionamento cognitivo della persona in seguito a una lesione cerebrale, in presenza di particolari problematiche e patologie o in condizioni di normalità (solitamente dai 50 anni in avanti).



Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa Clinica - formata in Neuropsicologia
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