lunedì 29 ottobre 2012

ALCUNI CONSIGLI PER MANTENERE IN FORMA IL NOSTRO CERVELLO


ALCUNI CONSIGLI PER MANTENERE IN FORMA IL NOSTRO CERVELLO


Esistono metodi per mantenere in forma il nostro cervello? Assolutamente si! Ci sono alcune semplici accortezze che possiamo mettere in atto per fare in modo che il nostro cervello si mantenga in forma!

Di seguito vi elenco alcuni facili accorgimenti che possono risultare utili per aiutare a migliorare le nostre potenzialità cerebrali.

Fai attività fisica:  fare sport non allena solo il fisico, ma allena anche il nostro cervello. Una ricerca svedese apparsa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che svolgere attività fisica costante renderebbe più intelligenti e brillanti. Gli scienziati hanno spiegato che esiste una correlazione tra allenamento cardiovascolare e migliori capacità intellettive. Attraverso l’esercizio fisico, infatti, il cervello viene irrorato con un maggiore flusso sanguigno e un maggiore apporto di ossigeno. L’attività fisica attiva e migliora circuiti neuronali implicati in svariati campi, ad esempio aumenta le capacità di concentrazione, di memorizzazione e l’abilità di compiere più attività contemporaneamente.

Fai attenzione a ciò che mangi: il cervello necessita non solo di carburante, ma della combinazione corretta di nutrienti per funzionare al meglio. Filippo Ongaro, considerato uno dei pionieri europei della medicina funzionale e anti-aging, ha scritto un libro chiaro ed efficace sulla nutrigenomica:  “Mangia che ti passa. Uno sguardo rivoluzionario sul cibo per vivere più sani e più a lungo” (Piemme).
"Il cibo è come un farmaco per il nostro organo del pensiero". A sostenerlo è Fernando Gomez-Pinilla, un professore di neurochirurgia della UCLA, la più grande università della California a Los Angeles. E' pubblicato su Nature Reviews Neuroscience lo studio più completo su come la dieta sia in grado di influenzare le capacità cognitive e la memoria.
In prima linea troviamo gli omega 3, acidi grassi di cui sono ricchi pesci, kiwi e noci. Sono uno dei mattoni principali delle membrane che circondano i neuroni.
Altre sostanze utili per rafforzare memoria e concentrazione sono i flavonoidi del vino rosso, cioccolato fondente e tè verde e le vitamine C ed E (agrumi, noccioline e oli vegetali).
L'acido folico di spinaci, lievito e succo d'arancia aiuta a stabilizzare l'umore, mantenendo a distanza alcuni tipi di depressione e rallenta il declino cognitivo negli anziani.

Chiacchiera: socializzare è un’ottima forma di ginnastica per il cervello. Uno studio, pubblicato da Nature Neuroscience, indicherebbe che relazionarsi con più persone promuoverebbe lo sviluppo di aree cerebrali deputate a particolari funzioni nei meccanismi di relazione con il prossimo. Nel nostro cervello, queste funzioni vengono svolte dall’amigdala e da parti della corteccia cerebrale che si connettono ad essa. Per confermare questa ipotesi, Kevin Bickart e colleghi hanno osservato le dimensioni dell’amigdala e lo spessore delle aree della corteccia connesse ad essa di 58 soggetti sani attraverso la risonanza magnetica per immagini. I soggetti con un’ampia e complessa rete di conoscenze si sono rivelati avere anche un’amigdala più sviluppata per dimensioni e connessioni con le aree deputate alla socializzazione. Attenzione però, le discussioni che si svolgono attraverso i social network non determinano il medesimo effetto: il cervello non “cresce” con relazioni basate sulle chat. 

Gioca con la tua memoria:  Gary Small, dell'università Ucla di Los Angeles (Usa) autore di "La Bibbia della memoria" ha individuato alcuni esercizi molto efficaci per migliorare le prestazioni del cervello. Anche il cervello può essere tonificato con esercizi mirati. Eccone alcuni esempi:
- al supermercato calcolate a mente quanto state spendendo e poi, giunti alla cassa, confrontate il vostro calcolo con lo scontrino;
- osservate per un minuto un elenco di 10 parole; dedicatevi per 20 minuti ad altro e poi cercate di riscrivere le 10 parole che avete memorizzato;
- cercare di ricordare a memoria la lista della spesa, ricordandola ad intervalli di 10 minuti.

Video-gioca:  Se da un lato l’uso esagerato dei videogiochi può creare diversi problemi di salute, a partire da un calo della vista fino ad arrivare a complicazioni di tipo psicologico e sociale, dall’altro è anche vero che, nelle giuste dosi, rappresenta una sorta di sport mentale, utile a migliorare certe capacità logiche e decisionali. I videogames fanno bene al cervello, lo rendono più elastico nei riflessi, nella capacità reattiva, nell’elaborazione delle situazioni, nell’ampiezza del campo visivo. Spesso i media si soffermano sugli effetti negativi dei videogiochi, ma molti sono anche i benefici.  Daphne Bavelier, neurobiologa,  ha svolto uno studio grazie al quale ha potuto evidenziare che i giochi d’azione  migliorano, tra le altre cose, alcuni aspetti della visualizzazione e la concentrazione. Uno studio pubblicato nel 2010 dall’Università di Rochester ha dimostrato come i videogiochi migliorino le capacità decisionali, permettendo di risolvere problemi in modo rapido ed accurato. 






martedì 23 ottobre 2012

NIENT'ALTRO CHE STAGE...

NIENT'ALTRO CHE STAGE...

Buon giorno a tutti. Oggi vorrei parlare di tirocini, o meglio vorrei dare la mia personale opinione in merito all’attuale situazione lavorativa dei giovani.

Chi, come me, ha seguito un percorso di studi per ottenere l’abilitazione alla professione di psicologo, conosce benissimo l’iter che viene richiesto. Questo iter, come capita anche per moltissimi altri settori, comporta dei periodi (anche lunghi) di tirocinio. 

Ora, io sono dell’idea che sia molto utile, importante e formativo poter svolgere dei tirocini validi (e anche qui ci sarebbe da aprire un dibattito sulla qualità dei tirocini che spesso vengono proposti, ma questo è un altro discorso!). Gli stage durante il percorso di studi, se veramente valevoli, permettono di acquisire una pratica e una concretezza operativa che l’università non fornisce. Perciò, in questi termini, io sono pienamente d’accordo con l’obbligo di svolgere periodi di stage!

Precisato questo e ribadita l’importanza di svolgere stage validi e utili, a me sembra sia veramente eccessivo, inappropriato e sconveniente imporre ai giovani una condizione pressoché costante di “eterno tirocinante”. La nostra parte l’abbiamo fatta, insomma…quelle moltissime ore di lavoro (perché durante lo stage si lavora a tutti gli effetti) senza avere una minima retribuzione e senza neanche un modico rimborso spese, le abbiamo portate a termine. Tutti coloro che, durante il percorso di studi, sono stati obbligati a fare dei periodi di tirocinio, sanno perfettamente di cosa parlo.

Una volta terminato il percorso di studi, una volta acquisita la laurea e l’eventuale abilitazione, i giovani hanno tutto il diritto di poter trovare un lavoro che possa ripagarli dei sacrifici fatti per ottenere il famoso “pezzo di carta”! E per lavoro intendo una reale occupazione che possa essere associata a ciò che si è studiato per tanti anni e che ovviamente preveda tutta una serie di diritti.
Invece, quando si va alla ricerca di un posto che possa essere coerente col piano di studi svolto e che possa fornire anche una sicurezza economica seppur modesta, ci si ritrova di fronte a miliardi di offerte “di lavoro” che impongono altri periodi di tirocinio, altre ore di stage (magari lontane dal proprio domicilio) le quali ovviamente implicano spese a proprio carico e non garantiscono né rientri economici di alcun genere né tanto meno la possibilità di ottenere un posto di lavoro successivo.

Magari si ha l’occasione di sostenere dei colloqui, ma anche in questo caso, molto di frequente vengono proposti esclusivamente “iniziali” periodi di stage ai quali, spesso, viene associata anche la necessità di frequentare corsi di formazione specifici (ovviamente che ognuno si deve pagare!). Oppure capita che per ottenere la sola possibilità di un’eventuale (non certa) assunzione si debbano prima seguire corsi formativi specifici (sempre da pagare di tasca propria ovviamente) proposti dalla struttura alla quale si è inviato il proprio CV, in seguito ai quali (quasi certamente) seguiranno periodi di stage. Inoltre, può anche capitare che non venga chiesto di svolgere alcun iniziale periodo di stage, non venga richiesto di frequentare alcun corso di formazione, ma vengono offerte retribuzioni che non permetterebbero neanche di coprire le spese necessarie per recarsi sul poso di lavoro ogni giorno!
Quindi non capita praticamente mai di ottenere una possibilità di assunzione, mai una vera occasione di lavoro reale.
A me tutto questo dà l’idea di un circolo vizioso indecente, che sminuisce notevolmente l’autostima, svilisce la determinazione delle persone e, ancor peggio, non mette nessuno nella condizione di poter guardare al futuro con un briciolo di serenità!

Oppure, allontaniamoci dal mondo universitario e proviamo a considerare le persone che decidono di non intraprendere una carriera universitaria, ma scelgono di cercare subito un lavoro.
Bene, qualche giorno fa mi è capitato di leggere l’articolo di una ragazza che parlava della situazione attuale dei giovani italiani.
L’immagine che ho inserito, e che vedete qui sotto, faceva parte di quell’articolo e credo sia esemplificativa di una (purtroppo) reale condizione dalla quale sembra quasi impossibile riuscire ad uscire e che pone i giovani in una situazione di scandalosa costante disoccupazione.

L’immagine, come potete vedere, fa riferimento alla ricerca di una stagista per una tabaccheria!!!!Uno stage per fare la tabaccaia!!!! Ma ci rendiamo conto???? Adesso, senza nulla togliere ai tabaccai (ci mancherebbe altro), a mio parere questo è davvero il chiaro esempio della vergognosa condizione alla quale siamo arrivati!

Stage per fare qualsiasi cosa! Nient’altro che stage! Ma davvero qualcuno pensa realmente che i giovani, il futuro di un paese, possano costruirsi una vita degna solamente avendo a disposizione stage non retribuiti e privi di alcuna certezza????
È tutto un tirocinio. Tutto un volontariato. Io ammiro molto chi fa volontariato, ma obiettivamente a 30 anni si può vivere di solo volontariato? Si può pensare e provare a progettare un futuro con la sola certezza di uno stage non retribuito?!!! Il volontariato, a mio parere, dovrebbe essere un “qualcosa in più”, un’attività che si decide di svolgere quando si ha già una sicurezza lavorativa che permetta di mantenersi e non un’occupazione “obbligata” perché non ci sono altre alternative!
E chi dovrebbe e potrebbe cambiare la situazione ha il coraggio di definire “schizzinosi” i giovani d’oggi!!!! Le richieste dei giovani non sono pretese!!! Qui non si tratta di pretese, ma di dare reale concretezza al diritto di ognuno di avere un lavoro dignitoso e retribuzioni al di sopra dello sfruttamento! Qui si parla di fornire ai giovani la possibilità di costruirsi un futuro, una vita decorosa e di non dover rinunciare alle proprie ambizioni e ai propri sogni!
Io sono veramente indignata e allibita! Direi che, arrivati a questo punto, sia decisamente il momento di creare nuove regole e di ridare (finalmente) ad ognuno la possibilità di lavorare e vivere dignitosamente, perchè si prosegue su questa strada io non oso davvero immaginare dove potremmo andare a finire!...







venerdì 19 ottobre 2012

IN CAMMINO VERSO IL CAMBIAMENTO!

IN CAMMINO VERSO IL CAMBIAMENTO!

Quanti di voi, all'inizio di ogni anno, si ripromettono di cambiare qualcosa della propria vita e poi, nel corso dell'anno, tutti i buoni propositi vengono abbandonati?...E' capitato sicuramente a moltissimi, me compresa!
Sia che ci si riproponga di fare attività fisica costante, di dimagrire, di smettere di fumare o semplicemente di tenere la macchina sempre pulita e la scrivania ordinata, sembra proprio che la maggioranza delle persone tendano a rinunciare prima del traguardo! C'è chi dura di più e chi dura meno, ma solo pochi riescono a raggiungere davvero il proprio obiettivo!

Chiunque cerchi, o abbia cercato, di modificare un'abitudine consolidata e radicata nel tempo conosce molto bene la difficoltà e la frustrazione che si prova quando si tenta di concretizzare cambiamenti che possano essere duraturi!

I cambiamenti pratici relativi al proprio stile di vita comportano sempre anche delle modificazioni a livello mentale. Senza dimenticare l'importanza della motivazione e dell'intenzione!
Perciò, sembra inutile pensare a cambiamenti grandiosi. Piuttosto, per prepararci nel modo più opportuno alle sfide che ci aspettano e che decidiamo di porci, sembra molto più utile avere delle aspettative realistiche che ci permettono poi di organizzare specifici piani d'azione.
Proprio in considerazione del fatto che i cambiamenti pratici comportano aggiustamenti mentali, è utile porsi traguardi a breve termine, definendo obiettivi alla nostra portata. Questo permetterà di aumentare la fiducia in noi stessi. 
Inoltre è fondamentale avere una profonda motivazione personale che ci faccia sentire realizzati e soprattutto ci permetta di percepire la nostra capacità di controllare le situazioni e di gestire le difficoltà. 
Infine è importante creare nuove routine, in modo tale che i nuovi comportamenti (desiderati) diventino tanto automatici quanto lo erano le cattive abitudini che ci prefiggiamo di eliminare.
Perciò i primi grandi aspetti che ci possono aiutare a rendere concreto e duraturo un cambiamento sono: porsi obiettivi realistici e realizzabili nel breve periodo, essere motivati e creare nuove abitudini. 

E' fondamentale entrare nell'ottica che cambiare le nostre abitudini sarà tutt'altro che facile!!!
A volte è sufficiente trovarsi in un certo posto o in una specifica situazione per attivare un determinato comportamento. Perciò, un metodo che potrebbe risultare utile e che potrebbe aiutarci, è quello di immaginare in anticipo come minimizzare le varie situazioni "di rischio"
Cambiare le nostre abitudini per crearne di nuove, in genere, comporta lo scegliere tra qualcosa che ci piace e qualcosa che ci piace molto meno. E questo non è per niente facile. Quindi non si deve mai dimenticare la difficoltà intrinseca al cambiamento! Riuscire a ottenere modificazioni durature è molto complesso, ma già il riconoscere e l'accettare questa complessità ci aiuta nel nostro cammino verso il cambiamento. 

Un'altra azione che ci potrebbe aiutare nel raggiungimento del traguardo è quella di passare del tempo  immaginando come sarà il risultato dei nostri sforzi e quali saranno gli ostacoli specifici che potremmo trovarci ad affrontare lungo la strada. Serve un grande sforzo per generare nuove abitudini e sono necessari piani d'azione specifici. E' importante non considerare i primi insuccessi come dei fallimenti. Gli "scivoloni" sono normali e non indicano assolutamente che dobbiamo arrenderci o che non siamo in grado di proseguire. 

Per rendere ancora maggiori le possibilità di successo e di raggiungere il nostro obiettivo è necessario capire esattamente il perchè ci siamo imposti quell'obiettivo e il perchè lo stiamo perseguendo. Risulta perciò fondamentale trovare delle ragioni personali profonde e valide per proseguire nel nostro cammino di auto-cambiamento! Gli obiettivi che fissiamo devono essere, e  li dobbiamo perciò sentire, realmente nostri!

Un'altra chiave per aiutarci a rendere reali i nostri obiettivi è partire con modestia, arrivando al risultato finale con gradualità. Questo può sembrare un consiglio banale, ma in realtà spesso le persone fanno l'opposto, cioè si pongono obiettivi e preparano piani d'azione estremi. L'approccio graduale, invece, è molto importante e utile per porsi nella condizione di sentire di essere capaci di fare qualcosa a dispetto delle difficoltà e questo, come si può intuire, aumenta la fiducia in noi stessi. Camminando lentamente verso il nostro obiettivo, si riduce lo sforzo necessario per il suo raggiungimento e aumenta, al contempo, l'autostima.

In sintesi, "quali tecniche mi possono aiutare nel cammino verso il traguardo?"

1) CAMMINATE PIANO E SIATE REALISTICI
Ponetevi obiettivi alla vostra portata e a raggiungibili nel breve periodo.
Immaginate il vostro traguardo, insieme ai possibili ostacoli che potrete incontrare per raggiungerlo.
Perdonatevi qualche scivolone, ma non smettete di camminare.

2) TROVATE UNA VOSTRA MOTIVAZIONE
Immaginate come il raggiungimento dell'obiettivo potrà cambiare positivamente la vostra persona.
Misurate i vostri progressi.

3) DEFINITE SPECIFICI PIANI D'AZIONE
Immaginatevi nelle situazioni "di rischio" e cercate di trovare delle vostre modalità, utili ed efficaci, per fronteggiarle.



Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa Clinica - formata in Neuropsicologia
334.1604200
salvettielena@libero.it
salvettielena84@gmail.com



domenica 14 ottobre 2012

CONSIGLI PER RENDERE EFFICACE LA COMUNICAZIONE COL MALATO DI ALZHEIMER

CONSIGLI PER RENDERE EFFICACE LA COMUNICAZIONE COL MALATO DI ALZHEIMER

Come anticipato nell’articolo precedente, oggi vorrei fornirvi alcune indicazioni utili per garantire l’instaurarsi di un contatto comunicativo ideale, funzionale ed efficace con la persona affetta da malattia di Alzheimer.
Perciò, di seguito elencherò alcune semplici “regole” generali da tenere in considerazione.

1)      Solitamente, il malato ha un campo visivo (attentivo) molto ristretto con difficoltà a guidare gli
occhi sulla mira e a mantenervela. Quindi é necessario:
-scegliere sempre come luogo di comunicazione un ambiente ben illuminato (mai penombra);
-segnalare il vostro arrivo attraverso un altro canale sensoriale ( dicendo il vostro nome, parlando, facendo rumore, toccando le mani ecc.);
-muoversi adagio e al tempo stesso non troppo;
-mettersi di fronte al malato, preferibilmente all’altezza dei suoi occhi (per favorire il più possibile il contatto visivo) e a una distanza che favorisca anche la lettura delle labbra e l’identificazione della mimica facciale.
Tutto ciò contribuirà a creare un senso di intimità tra il malato e l’interlocutore.

2)      Comunemente, l’ammalato presenta un’ipersensibilità acustica associata ad una difettosa capacità
di identificare la sorgente dei suoni e di riconoscerli in seguito alla quale sopporta difficilmente rumori di sottofondo, sia quelli continui (radio, T.V., conversazioni di altre persone, ecc.) che improvvisi (specie elettronici quali il campanello, il telefono).
E’ necessario quindi scegliere un ambiente tranquillo, privo di rumori concomitanti allo scopo di evitare confusione, ansia o irritazione da parte del malato facilitando così la sua concentrazione.

3)      Di regola, il malato ha, fin dall’inizio, grosse difficoltà nello svolgere due attività in contemporanea,
anche quelle più semplici e automatizzate, per problemi di distribuzione di risorse attentive.
Quindi é molto importante che il malato possa dedicarsi esclusivamente all’atto di comunicare senza avere da svolgere altri compiti, compresi quelli di routine (quali mangiare, lavarsi o vestirsi) sufficienti ad inficiare il regolare svolgimento di una conversazione. Ciò vale anche per l’interlocutore, se svolge altre attività mentre parla con il malato o l’ascolta finirà sicuramente per distrarlo e togliergli la concentrazione.

4)     Di frequente, il malato sente il forte bisogno di stare in silenzio rifiutando di entrare in contatto con
chiunque. Bisogna rispettare quei momenti per non rischiare che egli viva il contatto in modo stressante e spiacevole, il che allungherà i tempi per riuscire a riallacciare un buon contatto.
Anche l’inverso é vero: un interlocutore che é arrabbiato o impaziente non dovrebbe iniziare alcuna forma di interazione con il malato, quindi é preferibile allontanarsi e ritornare vicino a lui quando sono ritornati il buon umore e la pazienza.

5)  E’ assolutamente sconsigliato parlare del malato con altre persone in sua presenza convinti che  questo non capisca. Difatti, esiste sempre la probabilità che egli possa cogliere dal tono della voce o dalla mimica l’idea principale o qualche determinata parola del discorso di altri, che potrebbe ferirlo e ne sentirebbe sicuramente l’umiliazione.

6)   Infine, si raccomanda di "comunicare con il cuore". Questa espressione ha in realtà più significati.
Il primo riguarda l’EMPATIA,  cioé l’interlocutore dovrebbe sempre cercare di immedesimarsi nel vissuto del malato al fine di creare contatti emotivi significativi e capire meglio comportamenti, sentimenti ed emozioni del malato.
Un secondo significato si riferisce al RUOLO DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE. L’espressione del viso (anche se il malato non riconosce il volto, ne coglie sempre il sorriso), lo sguardo, l’intonazione della voce (mai troppo alta), il linguaggio corporeo (il modo di muoversi e di comportarsi), il contatto fisico (prendergli la mano, appoggiare mano o braccia sulle sue spalle o stringerlo tra le braccia, se ovviamente é consenziente) contribuiscono a trasmettere all’ammalato lo stato d’animo e i sentimenti dell’interlocutore più che le parole stesse poiché il malato, man mano che perde la capacità di decodificare le parole, si aggrappa sempre di più al linguaggio gestuale. Per questo motivo, l’interlocutore deve essere consapevole del proprio linguaggio corporeo e apparire sempre coerente,  ossia le sue parole non devono mai essere in contrasto con il suo atteggiamento.
Il terzo significato sta a indicare l’assoluto bisogno di ELIMINARE IL PARAGONE tra la persona affetta da ALZHEMEIR e un BAMBINO. Il malato rimane sempre una persona adulta con un proprio passato. Pertanto indirizzarsi a lui come fosse un bambino lo può solo umiliare e scatenare reazioni aggressive o altri comportamenti disfunzionali.


Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa Clinica - formata in Neuropsicologia
334.1604200
salvettielena@libero.it
salvettielena84@gmail.com



venerdì 12 ottobre 2012

COME CAMBIA LA COMUNICAZIONE NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER


COME CAMBIA LA COMUNICAZIONE NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

"Tutti i malati di Alzheimer presentano prima o poi disturbi della comunicazione?" Sì, la Malattia di Alzheimer è associata così di frequente ai disturbi della comunicazione che oramai questi costituiscono uno dei criteri diagnostici (DSM-IV).

Il graduale peggioramento nell'abilità di farsi capire e/o di capire gli altri si rivela una delle conseguenze tra le più disastrose e disarmanti da affrontare, sia per il malato sia per i familiari.

Nella malattia di Alzheimer esiste una notevole variabilità individuale per quanto riguarda il momento della comparsa, la velocità di aggravamento e la tipologia dei disturbi comunicativi. Tuttavia è possibile delineare un certo "profilo" correlato alle tre grandi fasi evolutive della malattia: iniziale, intermedia e avanzata.

Nella FASE INIZIALE i problemi riguardano prevalentemente il contenuto del discorso, e più nello specifico la conversione del pensiero in linguaggio, così come la ricerca lessicale (la scelta delle parole). Il discorso di una persona affetta da Alzheimer in fase iniziale appare confuso. Quest’incoerenza nasce dalla difficoltà di tenere a mente quello che il soggetto intende comunicare mentre il suo pensiero lo elabora linguisticamente.
Di seguito, riporto alcuni esempi che descrivono le caratteristiche tipiche rilevabili nel linguaggio Alzheimer in fase iniziale:
«Spesso mia madre inizia un discorso e poi, senza motivo, non lo finisce» (false partenze).
«Frequentemente mancano dei pezzi importanti nei discorsi di mio padre che ci impediscono di capire cosa vuole dire esattamente» (omissioni).
«Mia moglie, ultimamente, non tiene il filo del suo discorso; salta continuamente di palo in frasca» (intrusioni).
«Ho notato che mio padre da qualche tempo, anche all’interno dello stesso discorso, ripete le medesime cose» (perseverazioni ideative)
Al tempo stesso, il discorso Alzheimer in fase iniziale presenta:
-Anomie:  difficoltà nel trovare le parole (effetto «punta della lingua»);
-Parafasie verbali: uso di una parola al posto di un'altra in base alla somiglianza fonetica (ad esempio "campagna" al posto di "campeggio"), alla somiglianza semantica (ad esempio "forchetta" anziché "cucchiaio") o ad entrambi (ad esempio "accappatoio" invece di "cappotto").
Il malato, essendo in questa fase consapevole dei suoi difetti, ricorre a delle strategie che in qualche modo gli permettono di compensare le sue difficoltà. Queste strategie sono generalmente rappresentate da:
-parole passe-partout: coso, roba, aggeggio...
-termini di incertezza: credo che, secondo me...
-giri di frasi a volte anche lunghe, creando la falsa impressione che la persona sia diventata più verbosa rispetto a prima.
Inoltre, emergono difficoltà nel seguire dialoghi veloci e complessi tra più persone, soprattutto se svolti in ambienti con rumori di sottofondo.

Nella FASE INTERMEDIA aumentano notevolmente le difficoltà linguistiche. Il malato inizia a manifestare una vistosa pigrizia verbale, ossia si esprime più lentamente e si ripete spesso sia nelle affermazioni sia nelle domande. Spontaneamente parla quasi esclusivamente di cose che avvengono nell’immediato. Questo si verifica perchè la persona non è più in grado di mettere in ordine cronologico gli eventi, di distinguere ciò che é già successo da quello che deve ancora accadere e di rappresentare il futuro. A poco a poco scompaiono i discorsi narrativi  per lasciare spazio a discorsi solamente descrittivi ed egocentrici. Si accentua l’anomia che non viene più compensata e sono frequenti le perseverazioni verbali, ad esempio: «Ho bevuto il latte e anche il latte» (al posto di "caffè").
Oltre ai disturbi di contenuto, si evidenziano anche alterazioni a livello della struttura del discorso, ad esempio frasi lasciate in sospeso. Il malato, in questa fase, commette anche delle parafasie fonemiche (a volte ancora riconoscibili: «gabilotto» per «gabinetto») fino a creare dei neologismi veri e propri («crango» per «cavatappi»). Il quadro complessivo corrisponde a quello che gli anglosassoni definiscono "Empty speech", cioè l’eloquio regge, ma è privo di contenuto. Anche il versante espressivo della comunicazione non verbale si deteriora: i gesti che accompagnano le parole non sempre sono congrui e l’espressione mimica diviene meno vivace. A questo stadio, il malato non è più in grado di seguire una semplice conversazione e non comprende più ordini semi-complessi («Prendi il latte nel frigorifero e versalo nella tazza») o complessi («Prima di venire a tavola, vai a lavarti le mani»). Solitamente NON esiste più piena consapevolezza delle proprie difficoltà comunicative.

Nella FASE AVANZATA le risorse linguistiche sono molte scarse. Il malato parla solo se stimolato, con risposte spesso stereotipate, inquinate da parole che il malato stesso ha pronunciato in precedenza o da parole dette da altri. Questo crea delle perseverazioni verbali:  «Giulia chiamo...eh...mi chiamo...chiamo Paolo...ecco…» per dire «Mi chiamo Giulia e mio marito Paolo». Oppure genera  eco-risposte in cui il malato "si appoggia" alle parole dell’interlocutore: «Come stai oggi?» «Come sto? Sto bene, grazie». Oppure si limita a ripetere la domanda fatta dall’interlocutore: «Come stai?» «Come stai?». O, ancora, ripete domande anziché dare risposte: «Hai fame?» «Ho fame?» Infine, a volte si presentano ripetizioni compulsive di parole che il malato sente nell’ambiente, anche se non sono indirizzate a lui.
Negli ultimi stadi dell’Alzheimer, le espressioni verbali possono essere ridotte a qualche stereotipia o qualche parola, o non-parola, isolata che il malato può ripetere instancabilmente. A volte la persona bisbiglia solo le ultime sillabe delle parole: «cie...cie...cie...cie...», oppure associazioni di suoni: «ghi...ga...ghi...ga...ghi». Infine può non emettere che gemiti o urli per poi arrivare a un mutismo totale.
La comprensione risulta gravemente compromessa. La comunicazione non verbale è notevolmente ridotta. E’ presente inerzia motoria. Il volto è completamente privo di espressione. Anche il contatto visivo con l’interlocutore risulta difficile.

Questa è, in linea di massima, la descrizione di come la comunicazione della persona affetta da malattia di Alzheimer si deteriora progressivamente. 

"Cosa devo fare se mi accorgo che un mio familiare presenta problemi di comunicazione simili a quelli descritti per la fase iniziale/intermedia?" E' importante capire l'origine delle problematiche comunicative. Non sempre le difficoltà linguistiche sono connesse a un esordio Alzheimeriano. Il consiglio è quello di  rivolgersi al proprio medico, al neurologo e al neuropsicologo che possono fornire chiarimenti e delineare un quadro completo e preciso della reale situazione.

Nel prossimo articolo fornirò alcune indicazioni utili al fine di garantire l’instaurarsi di un contatto comunicativo ideale con il malato di Alzheimer. Resto comunque a disposizione per rispondere ad eventuali  vostre domande e/o dubbi!


Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa clinica - formata in Neuropsicologia
334.1604200
salvettielena@libero.it
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venerdì 5 ottobre 2012

COS'E', A COSA SERVE E A CHI SI RIVOLGE LA VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA

COS'E', A COSA SERVE E A CHI SI RIVOLGE LA VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA
Buon giorno a tutti, oggi vorrei focalizzare l’attenzione sulla valutazione neuropsicologica, la quale, per altro, è una delle mie attività professionali principali.

Immagino che, per i non addetti ai lavori, parlare di valutazione neuropsicologica possa spaventare un po’, molti non ne hanno addirittura mai sentito parlare, altri ancora ne possono aver sentito parlare, ma non sanno molto bene di cosa si tratti né a cosa serva realmente. Perciò, in questo breve articolo, proverò a fornire alcune informazioni che potrebbero risultare utili per chiarire questi aspetti.

Prima di tutto è importante sapere che la valutazione neuropsicologica si inserisce nell’ambito della Neuropsicologia, un’affascinante disciplina che si propone di studiare gli effetti delle lesioni cerebrali sui processi cognitivi (percezione, attenzione, linguaggio, memoria, ragionamento logico, etc). Magari in un prossimo articolo cercherò di darvi qualche informazione più dettagliata in merito alla Neuropsicologia. Oggi però, come già precisato in precedenza, il focus sarà sulla valutazione. 

Quindi, cosa si intende per valutazione neuropsicologica? E a cosa serve? 
L’esame neuropsicologico fornisce importanti informazioni sul comportamento, sulle capacità cognitive, sulla personalità, sulle abilità apprese e sul potenziale riabilitativo delle persone che hanno subito una lesione cerebrale e non solo. Per ottenere queste informazioni si lavora mediante la somministrazione di tests aventi tutte le proprietà psicometriche su cui un test solitamente viene costruito (standardizzazione, attendibilità, validità, sensibilità, specificità). I test neuropsicologici stabiliscono se un certo tipo di funzionamento (memoria, attenzione, linguaggio, etc) rientra o meno nella “norma” per età e grado di istruzione.
È importante sottolineare un aspetto rilevante, ossia che un danno cerebrale comporta sempre un’alterazione comportamentale. La valutazione si prefigge di rilevare le manifestazioni comportamentali delle funzioni cerebrali, siano esse danneggiate oppure conservate. In altre parole, si può dire che la valutazione neuropsicologica permette di individuare quali sono le abilità compromesse, l’entità di tale compromissione e quali invece sono le capacità preservate.
Lo scopo ultimo non è quello di fare una diagnosi specifica, ma fornire dati ed evidenze che possono contribuire all’inquadramento diagnostico. 

L’impostazione della valutazione neuropsicologica dipende dalla finalità per cui la valutazione stessa viene effettuata: stesura di un profilo neuropsicologico, completamento della diagnosi neurologica, fornire indicazioni sulle abilità compromesse e su quelle residue, fornire indicazioni relative ad attività di gestione/assistenza del paziente, progettare e strutturare il progetto riabilitativo integrato, valutare l’efficacia di un determinato trattamento, fini assicurativi/legali o scopi di ricerca.

A chi è rivolta la valutazione neuropsicologica?
La valutazione è prevista per pazienti che presentano svariate patologie, tra cui: malattie psichiatriche (ad esempio Depressione), postumi di Ictus ischemico o emorragico, postumi di neurochirurgia, postumi di trauma cranico, demenze (ad esempio Alzheimer, demenza fronto-temporale…), malattia di Parkinson, etc. Tale valutazione può essere effettuata anche da tutti coloro che non hanno subito lesioni cerebrali e che non presentano patologie specifiche, ma che comunque vogliono tenere sotto controllo e monitorato il proprio funzionamento cognitivo, per interesse personale o perché hanno familiarità, o predisposizione, per patologie neurodegenerative. 

La valutazione si articola in diverse fasi:
-Definizione del problema: analisi dello scopo della richiesta, ossia individuazione del motivo per cui è stato richiesto l’intervento.
-Anamnesi: raccolta di tutte le informazioni sulla vita del paziente, sulla sua storia clinica, sugli esordi e il decorso del disturbo lamentato, sulla familiarità per patologie neurodegenerative e sulle visite ed esami strumentali già effettuati.  Si prevede inoltre un colloquio con i familiari per approfondire ulteriormente le informazioni raccolte e per completare in modo maggiormente dettagliato il quadro anamnestico.
-Fase di screening: durante la quale si utilizzano tests di valutazione delle funzioni cognitive generali. In questo modo si otterrà un profilo cognitivo globale del soggetto.
-Fase di approfondimento: strettamente connessa alla fase di screening, nel corso della quale si utilizzano tests per specifiche abilità cognitive.
-Restituzione: viene fornita una relazione dettagliata sulle informazioni raccolte e sugli esiti dei tests somministrati.

Quindi, in sintesi, la valutazione neuropsicologia è un processo diagnostico non invasivo, effettuato mediante la somministrazione di tests neuropsicologici, volto alla delucidazione e misurazione del funzionamento cognitivo della persona in seguito a una lesione cerebrale, in presenza di particolari problematiche e patologie o in condizioni di normalità (solitamente dai 50 anni in avanti).



Dott.ssa Elena Salvetti
Psicologa Clinica - formata in Neuropsicologia
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giovedì 4 ottobre 2012

??? PSICOLOGO - PSICHIATRA - PSICOTERAPEUTA ???

??? PSICOLOGO - PSICHIATRA - PSICOTERAPEUTA ???

Ieri una persona mi ha chiesto la differenza tra Psicologo e Psichiatra. In effetti, mi capita spesso di accorgermi che la gente confonde le varie figure professionali che operano nel campo della “salute mentale”. Quindi, oggi cercherò di fare un po’ di chiarezza in merito. Comprendere le caratteristiche specifiche che differenziano i diversi ruoli può risultare utile per permettere alle persone di rivolgersi al professionista più adeguato, ma può essere di aiuto anche a tutti coloro che si accingono a scegliere il proprio percorso universitario!

Le differenze tra Psicologo e Psichiatra risiedono sostanzialmente nel percorso di studi e nella conseguente modalità di trattare la persona e la sua problematica.

Lo PSICOLOGO ha conseguito la laurea in Psicologia e superato l'Esame di Stato che permette l'iscrizione all'Ordine degli Psicologi e l’abilitazione alla professione di Psicologo. Per poter sostenere tale esame è obbligatorio aver svolto un tirocinio formativo della durata di un anno, nel corso del quale si fa esperienza nel campo della psicologia. Gli Psicologi non sono tutti uguali. Infatti, le università propongono svariati indirizzi formativi (per esempio: psicologia clinica e di comunità, psicologia del lavoro e delle organizzazioni, psicologia dello sviluppo e dell'educazione, psicologia clinica, psicologia generale e sperimentale). Ogni tipologia di indirizzo fornisce competenze diverse, perciò ne conseguono anche campi di intervento differenti.
Dopo la laurea, si può decidere di frequentare ulteriori corsi di formazione o master che forniscono competenze maggiormente specifiche relative a molteplici ambiti.  Si può scegliere inoltre di frequentare una scuola di psicoterapia per arrivare a ottenere il titolo di Psicoterapeuta.
Lo psicologo NON fornisce un trattamento farmacologico, perciò non prescrive alcun genere di farmaco (per prescrivere farmaci è necessaria la laurea in medicina!). Il lavoro dello Psicologo si basa principalmente su colloqui di sostegno, utilizzo di strumentazioni diagnostiche, consulenze, tecniche di rilassamento e altro ancora. In effetti, sono molte le attività che lo Psicologo può fare, purché ciò che svolge non si configuri come “terapia”, in quanto essa richiede il titolo di Psicoterapeuta.
Lo Psicologo cerca di trattare la persona nella sua totalità, quindi non concentrando l’attenzione esclusivamente sul disturbo e relativi sintomi. Lo Psicologo lavora sulla e, soprattutto, con la persona. 

Lo PSICHIATRA ha una laurea in medicina e una successiva specializzazione in psichiatria. Anche lo Psichiatra deve svolgere un periodo di stage formativo che gli permette di acquisire una pratica nel settore della medicina e, così come avviene per lo Psicologo, ha l’obbligo di superare un esame di Stato che gli permetta di ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione di medico.
Lo Psichiatra cura i disturbi psichici e le malattie mentali mediante l’utilizzo di metodologie proprie della medicina e della psichiatria, le quali di frequente prevedono la prescrizione di trattamenti farmacologici.  Avendo una laurea in medicina, lo Psichiatra ha la facoltà di prescrive farmaci!
Lo Psichiatra non è uno Psicologo né uno Psicoterapeuta, a meno che ovviamente non abbia conseguito i relativi titoli.
Lo Psichiatra utilizza un metodo di lavoro che può essere definito di diagnosi e cura, focalizzando la sua attenzione sul problema e sulla relativa sintomatologia, cercando di risolvere esclusivamente tale disturbo, esattamente come fa il medico. 

Un’altra importante figura professionale da chiarire è quella dello PSICOTERAPEUTA.
Il percorso per diventare Psicoterapeuta è duplice. Si può partire dalla laurea in psicologia o dalla laurea in  medicina. Come detto in precedenza, sia che si parta da una laurea in psicologia, sia che si scelga di conseguire la laurea in medicina, è obbligatorio svolgere un periodo di tirocinio formativo e superare l'Esame di Stato. Quindi, lo Psicoterapeuta può essere sia Psicologo che Medico. Ovviamente, se è uno Psicologo può esercitare tutte le attività dello Psicologo e in più la psicoterapia, nel caso invece che sia medico può esercitare le attività del medico (fra cui la prescrizione di farmaci) e quelle dello Psicoterapeuta.
Le attività svolte dallo Psicoterapeuta prendono il nome di “psicoterapie”, le quali permettono di operare  "in profondità" e direttamente sui disagi della persona attraverso l'utilizzo di tecniche che variano a seconda della teoria di riferimento propria del professionista stesso.
Le scuole di specializzazione che permettono l'iscrizione all'albo degli Psicoterapeuti sono numerose e molto differenti tra loro. Ciò che le differenzia è sostanzialmente l'indirizzo teorico di riferimento e, quindi, la differenza risiede nel fatto che ognuna di esse pone le proprie basi su uno specifico quadro teorico di riferimento (ad esempio, sistemico-relazionale, cognitivo-comportamentale, transculturale, costruttivista, psicanalitica… ). Le scuole di psicoterapia hanno durata di 4/5 anni.


Non di rado, avviene che lo Psicologo, lo Psichiatra e lo Psicoterapeuta forniscano contemporaneamente il loro supporto alla medesima persona, per fare in modo che quest’ultima possa ottenere un risultato nettamente migliore rispetto a quello che si potrebbe avere attraverso l’applicazione esclusiva di un solo approccio. 



mercoledì 3 ottobre 2012

ICTUS CEREBRALE

ICTUS CEREBRALE

Quando si parla di ischemia ed emorragia cerebrale spesso alcune persone credono di parlare di due problematiche differenti. In realtà questo è vero solo per metà, o meglio derivano da cause differenti, ma in entrambi i casi si sta parlando di Ictus.

L’Ictus (o Stroke) è una lesione cerebrovascolare causata dall’interruzione del flusso sanguigno al cervello dovuta a ostruzione o rottura di un’arteria. Quando un’arteria cerebrale si ostruisce o si rompe, i neuroni vengono privati di ossigeno e dei nutrimenti fondamentali per la loro sopravvivenza, in questo modo iniziano a morire.  Infatti i neuroni dipendono da un costante apporto di sangue. Se l’encefalo viene privato di tale apporto si ha una perdita di coscienza e un danno permanente in pochi minuti.

Le cellule cerebrali distrutte dal danno iniziale innescano una sorta di domino che demolisce altre cellule, anche in una vasta area limitrofa alla lesione. Le cellule cerebrali non si rigenerano perciò il danno causato dall’Ictus è permanente.

A seconda dall’area cerebrale colpita, l’Ictus può avere come esiti la paralisi e la perdita di alcune funzioni (parola, visione o memoria). Inoltre, l’ictus può portare anche a coma o morte.

Allo stesso modo di un attacco cardiaco, lo Stroke può sopraggiungere improvvisamente (anche se generalmente questo avviene dopo molti anni di problemi circolatori).

L’ictus è di durata superiore alle 24 ore, al di sotto delle 24 ore si parla di TIA (attacco ischemico transitorio). Il TIA è un fattore prognostico sfavorevole, dal momento che circa il 10% dei casi che sviluppano TIA, andranno incontro a uno Stroke completo. Il TIA può comunque essere in qualche modo “utile”, nel senso che permette l’individuazione di problematiche specifiche e la prevenzione dell’Ictus.

In Italia, l’Ictus è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie, la seconda causa di demenza e la prima di invalidità.

Tra i fattori di rischio più documentati si possono ricordare: Ipertensione Arteriosa, alcune cardiopatie, Diabete Mellito, fumo di sigaretta ed eccessivo consumo di alcol.

Le conseguenze dell’Ictus sono: Emiparesi (deficit motori in una metà del corpo), Emianestesia (perdita di sensibilità in una metà del corpo), Emianopsia (visione compromessa in una sola metà del campo visivo), Afasia (disturbi linguistici di comprensione e/o produzione), Neglet (mancanza di consapevolezza o di attenzione per un lato del corpo o per gli eventi che si verificano da un lato del corpo – solitamente a sinistra), Diplopia (visione doppia) e Disfagia (difficoltà di deglutizione).

Come detto in precedenza, due sono le principali tipologie di Stroke: ischemico ed emorragico.
L’Ictus ischemico (o trombotico o trombosi cerebrale) ha origine quando, all’interno di un’arteria cerebrale si forma un coagulo di sangue (il "trombo") che restringe il vaso sanguigno. Questo processo può interrompere totalmente la fornitura nutritiva nell’area cerebrale irrorata dall’arteria che si è ostruita.
L’Ictus emorragico intraparenchimale (o emorragia intracerebrale) è la tipologia di Stroke che si verifica meno spesso, ma è la più grave e potenzialmente fatale perché si genera quando un’arteria cerebrale si rompe. Infatti questo tipo di Ictus si ha quando un vaso intracranico si rompe e il sangue si espande nell’encefalo uccidendo i neuroni (il sangue infatti è neurotossico).

Nell'immagine è possibile vedere cosa succede all'interno dell'encefalo quando si ha un Ictus emorragico o ischemico. Nel primo caso si verifica la fuoriuscita di sangue che si espande nell'encefalo in seguito alla rottura di un'arteria. Nel secondo caso, invece, l'arteria si è ostruita e questo impedisce il rifornimento nutritivo necessario nell'area cerebrale adiacente alla lesione. 

Il PROFILO NEUROPSICOLOGICO di un paziente colpito da Stroke risulta essere molto variegato. Questo si verifica perché il tipo di disturbo cognitivo è direttamente connesso al tipo di Ictus, alla sede e all’estensione della lesione, nonché al genere di intervento che viene fatto sul paziente nei momenti immediatamente successivi alla comparsa dello Stroke.
I disturbi maggiormente frequenti sono quelli linguistici (nel caso di lesioni emisferiche sinistre) e visuo-spaziali (nel caso di lesioni emisferiche destre).
Possono verificarsi anche, ad esempio:
-nel caso di lesioni emisferiche sinistre: alterazioni della memoria verbale, alterazioni del gesto, depressione, aprassia costruttiva;
-nel caso di lesioni emisferiche destre: alterazioni della memoria visuo-spaziale, negligenza emispaziale o emicorporale, anosognosia (incapacità di riconoscere lo stato di malattia), disforia o euforia, aprassia costruttiva. 

La valutazione neuropsicologia nel post-Ictus risulta molto importante per:
-ottenere un adeguato inquadramento delle funzioni cognitive così da identificare la presenza di sindromi o deficit focali (sindrome frontale, afasia, neglect, disturbi di memoria, disturbi di attenzione, etc);
-individuare fattori determinanti un rischio di evoluzione verso un deterioramento cognitivo su base vascolare;
-impostare, se necessario, specifici programmi di riabilitazione neuropsicologica (l’ictus danneggia il cervello e le sue funzioni, non i muscoli) e di supporto psicologico.


Per ultimo, vorrei consigliarvi una lettura interessante relativa all'argomento: “La scoperta del giardino della mente: cosa ho imparato dal mio Ictus cerebrale” della DOTT.SSA JILL BOLTE TAYLOR, edito da Mondadori.
La Dottoressa Taylor è una neuroanatomista americana.  Inaspettatamente, un Ictus emorragico esplode nel suo emisfero sinistro.
Come probabilmente sapete, l’emisfero sinistro è quello deputato alla razionalità, all’analisi, al linguaggio ( e altro…), mentre l’emisfero destro è quello della fantasia, delle relazioni, della “visione d’insieme (e altro…). Mentre il sangue si espande nel suo emisfero sinistro, la Dott.ssa Taylor riesce a riconoscere in maniera chiara e vivida tutti i segnali che indicano l’arresto delle diverse funzioni cognitive.

Molto interessante anche il filmato:




Dott.ssa Elena Salvetti
(Psicologa Clinica – formata in Neuropsicologia)
334.1604200



martedì 2 ottobre 2012

ATTACCHI DI PANICO: ALCUNI CONSIGLI!


ATTACCHI DI PANICO: ALCUNI CONSIGLI!

Quanti di voi soffrono o hanno mai avuto un attacco di panico? Magari non tutti hanno vissuto questa esperienza, ma sono sicura che tutti, almeno una volta, ne hanno sentito parlare.
In questo articolo cercherò di spiegare cos’è un attacco di panico, ma soprattutto fornirò alcune indicazioni utili per gestire al meglio l’ansia!

Il DSM-IV-TR (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) definisce l’attacco di panico come un periodo preciso di paura o disagio intensi, durante il quale 4 (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente e hanno raggiunto il picco nel giro di 10 minuti:  palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia, sudorazione, tremori fini o grandi scosse, dispnea o sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio), brividi o vampate di calore.
Coloro che hanno avuto un attacco di panico lo descrivono come un'esperienza tremenda e angosciosa, nel corso della quale hanno temuto di impazzire, di morire, di perdere il controllo.
Solitamente, l'attacco di panico arriva improvvisamente e in modo inaspettato, dura all'incirca 10 minuti (seppure in quel momento la percezione del tempo è molto dilatata), poi scompare gradualmente.
La persona non riesce a vedere nessuna connessione con la situazione che sta vivendo e la manifestazione dell'attacco di panico: generalmente, questo è il motivo per cui si è così spaventati.
La persona vive con la preoccupazione persistente di avere altri attacchi, presenta un'elevata angoscia circa le implicazioni dell’attacco o delle sue conseguenze (perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, impazzire) sino a modificare in maniera significativa il proprio comportamento e/o le proprie abitudini di vita. Una prima conseguenza degli attacchi di panico può essere quella dell'evitamento di tutte le situazioni che il soggetto teme possano causargli l'attacco.
Gli attacchi di panico accadono solitamente  in momenti particolari della  vita, momenti che  si potrebbero definire “di passaggio”: 
-fra  la fine  dell’adolescenza e  l’inizio dell’età  adulta (quando si è alla ricerca di un ruolo, di una propria identità); 
-a metà della vita adulta (quando le persone iniziano a fare i primi bilanci fra aspettative e risultati  ottenuti). 

Ecco alcuni CONSIGLI che mi sento di darvi e che, penso e spero, possano esservi utili:

1)   Informarsi: è importante sapere cosa si sta vivendo, conoscere il problema. Per farlo ci possono essere due modalità. La prima è leggere libri (seri ed affidabili) che trattano l’argomento. La seconda modalità è rivolgersi allo psicologo che può fornire tutte le indicazioni utili per comprendere al meglio cosa sia un attacco di panico e ottenere direttive pratiche su cosa fare in certi momenti. Non affidatevi alle “voci di corridoio” .
2)   Fare sport:  Lo sport aiuta a sfogarsi ad allentare stress e tensioni. L’esercizio fisico (la piscina, la palestra o anche solo una semplice passeggiata) permette di liberare la mente e recuperare la calma. Tuttavia, non bisogna  mai ignorare le nostre emozioni!
3)   Uscire dalla routine, coltivare amicizie e rilassarsi:  distaccarsi dalla solita consuetudine può aiutare  a  "prendere  fiato". Modificare alcune abitudini individuando, ad esempio, dei nuovi hobbies e relazionarsi a persone che condividono i nostri interessi può aiutare ad allontanarsi dal problema.  Stringere importanti relazioni amicali può fornire la possibilità di sfogare le tensioni. Inoltre, occupare il tempo in attività piacevoli, con persone che ci fanno sentire bene, permette di distrarci, allontanando l’eccessiva preoccupazione su noi stessi. Trova il tempo per rilassarti e concedi al tuo corpo momenti di totale relax (esistono ad esempio tecniche di rilassamento che possono rivelarsi davvero molto utili).
4)  Affronta le tue paure:  più vengono evitate le situazioni temute, più loro acquistano potenza. Anche se nel breve periodo, sfuggire le situazioni e i contesti che fanno paura può dare l’illusione di risolvere il problema, nel lungo periodo ci si accorge che questa soluzione non funziona, anzi peggiora solo le cose.  È importante “prendere di petto” le paure. Perciò, non evitate la paura, ma affrontatela faccia a faccia con coraggio. Solo in questo modo la paura potrà essere eliminata.
5)   Trovare un terapeuta dentro se stessi: Imparare a fare affidamento e appoggiarsi su se stessi, facendosi forza autonomamente, è sicuramente un bene: migliora l’autostima e la considerazione di sé. Generalmente i soggetti che soffrono di attacchi di panico tendono a diventare dipendenti da altre persone, diminuendo progressivamente la propria autonomia. Chiedere costantemente aiuto ad altri mantiene ed aggrava i sintomi ansiosi perché aumenta il senso di incapacità. E’ importante rendersi conto che dentro di noi c’è la forza necessaria per affrontare le paure “in solitaria”. Ognuno di noi ha dentro di se un terapeuta personale capace di placare ansie e paure. È importante però sottolineare che non è buona cosa diventare eroici: “da soli a tutti i costi” è un motto che non paga.
6)   Non perdere tempo, lo psicologo c’è per aiutarti a stare meglio:  l’attendere  semplicemente che tutto passi spesso porta a un’attesa inutile. Se nonostante gli sforzi di auto-aiuto ci si rende conto che non si hanno miglioramenti e il disturbo persiste, diventa fondamentale chiedere aiuto allo psicologo. Infatti, gli attacchi di panico, se non vengono debitamente curati, tendono a cronicizzarsi e aggravarsi.


Dott.ssa Elena Salvetti
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